Le richieste che, per lunga tradizione, rivolgiamo alla fotografia sono, in particolare, due: da una parte un profondo
ancoraggio alla realtà e, dall’altra, una forte capacità di sorprenderci. E’ un atteggiamento diverso da quello che ci
suscita la pittura ed è atteggiamento che parla appunto della diversità dei mezzi e dei linguaggi.
Nulla, in una fotografia, è più fastidioso ed irritante di una inquadratura oleografica, di una composizione in qualche
modo avvertita come pittorica. Ne sospettiamo e la chiamiamo “cartolina illustrata”, cioè immagine non solo dell’ovvio
ma soprattutto del “falso”, dell’inautentico”. Perchè, per definizione “autentico” in una fotografia, è solo l’attimo che
coglie il frammento, l’istante che rompe la continuità e la durata; “vero” è lo sguardo – il “clic” – che frattura la crosta
del visibile e dà visione dell’inusuale, sorprendente del mondo e del nostro inquieto trovarci e riconoscerci
(come diceva Valèry e ripeteva Sciascia) “ignoti a noi stessi”.
Con l’azione dei suoi decimi di secondo, la fotografia uccide la “posa” che svaluta come artificio e menzogna.
Perciò essa occupa una zona lontana, magari opposta, a quella della pittura; una zona che è al confine e forse invade
quella del teatro, del palcoscenico. Nell’istantanea fotografica, infatti, la realtà e gli uomini danno involontario spettacolo
del loro inconsapevole mostrarsi, e tuttavia autentico spettacolo: sorprendente, inusuale, anche innaturale, come se
il bagliore del flash ogni volta illuminasse per un attimo l’inconscio e svelasse maschere sotterranee, paure nascoste,
nudità e ipocrisie sociali.
Grande è quel fotografo che sa percorrere con pietà e complicità un così terribile esercizio di crudeltà che sempre
sfiora e rischia di precipitare nel cinismo.
In questa mostra non mancano esempi di un tale amoroso esercizio. Lascio allo spettatore, com’è giusto, il piacere di cercarli, di trovarli.
Liborio Termine